"Come un altro, o Antifonte, si compiace di un bel cavallo, o di un cane, o di un uccello,
così e ancor di più, io traggo piacere dai buoni amici,
e se so qualcosa di buono.. lo insegno loro".


lunedì 19 settembre 2016

#9 Riassunto: Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, 1945 - Il corpo come espressione e la parola.

Conducendo le proprie analisi Merleau-Ponty rinviene un’intenzionalità persino nella funzione sessuale del corpo proprio. L’analisi del fenomeno della parola e dell’atto espressivo di significazione gli offrono la possibilità di superare definitivamente la dicotomia tra soggetto e oggetto. Anche in questo caso vengono proposte due diverse interpretazioni: una intellettualista, l’altra empirista. In termini empiristi, il linguaggio è presentato come la semplice esistenza effettiva di ‘’immagini verbali’’ ossia tracce lasciate in noi dalle parole udite o pronunciate. L’ articolazione delle parole viene ricondotta a determinanti fisiologiche: non c’è nessuno che parla, ma solo un flusso di parole che si producono senza intenzione, ciascuna opportunatamente evocata dai diversi stimoli in virtù di associazioni acquisite. La parola non sarebbe un’azione e non esprimerebbe possibilità interne del soggetto. L’intellettualismo interviene confutando la tesi empirista individuando, tramite l’analisi del disturbo linguistico dell’afasia, una dicotomia tra linguaggio automatico e linguaggio gratuito. Lo stesso malato in grado di dire ‘’no’’ in situazioni che lo interessino vitalmente è incapace di pronunciare la medesima parola in maniera gratuita. Il linguaggio concreto rimane legato alle determinanti fisiologiche individuate dall’empirismo, mentre quello gratuito diveniva un fenomeno del pensiero e l’origine del disturbo andava ricercata in un disturbo del pensiero. Lo stesso soggetto patologico che non è in grado di nominare il colore degli oggetti che gli vengono offerti, è altrettanto incapace di raggrupparli secondo un criterio di tinta fondamentale. Non solo compie assai lentamente e minuziosamente l’operazione, ponendo gli oggetti gli uni accanto agli altri senza riuscire a vedere con un solo sguardo quelli che vanno assieme, egli commette anche un errore grossolano: se l’ultimo oggetto aggiunto al mucchio degli azzurri, ad esempio, ha una tinta pallida, egli continuerà ad aggiungere a quel mucchio un rosa pallido o un verde pallido, come se avesse perso la capacità di mantenere dall’inizio alla fine dell’operazione il criterio di raggruppamento che è la tinta fondamentale. Per gli intellettualisti il malato è divenuto incapace di sussumere dei dati sensibili sotto delle categorie ed innalzarli a concetto, è per questo che non è in grado di cogliere immediatamente degli oggetti come rappresentanti dell’Eidos di un color. Allo stesso modo, l’incapacità del malato di nominare i colori dipenderebbe da un disturbo della funzione di rappresentazione. Il linguaggio appare adesso come condizionato dal pensiero. Merleau-Ponty rifugge entrambe le interpretazioni, accomunate dal fatto che la parola non ha significato: per l’empirismo, infatti, la parola è un fenomeno psichico e fisiologico che risponde alle leggi della meccanica nervosa e dell’associazione, mentre per l’intellettualismo la parola è solo il segno esteriore e non necessario di un’operazione categoriale. L’esperienza, in verità, ci mostra che il pensiero guarda alla parola come meta più grande della propria realizzazione: anche l’oggetto più familiare rimane indeterminato finché non ne rintracciamo il nome e lo stesso soggetto pensante giace in un’ignoranza dei propri pensieri finché non li espone in maniera sistematica o li mette per iscritto. Questo avviene perché noi diamo il nostro pensiero attraverso la parola interiore ed esteriore: il pensiero procede per folgorazioni istantanee, ma noi lo possediamo solo attraverso l’espressone. La denominazione degli oggetti non viene dopo il loro riconoscimento ma è il riconoscimento stesso. La parola è ‘’portatrice di senso’’ e il nome è l’essenza dell’oggetto che risiede in esso esattamente come il suo colore o la sua forma.  In chi parla la parola non è una manifestazione di un pensiero già fatto e in chi ascolta il pensiero è ricevuto proprio dalla parola nel senso che ogni parola ascoltata mi appartiene già ma quei significati si intrecciano in un pensiero nuovo che li rimaneggia tutti e che farà apparire, retrospettivamente, i dati come convergenti. Un’analisi della parola che tenga conto del pensiero racchiuso in essa deve innanzitutto riconoscere che nel soggetto parlante il pensiero non è una rappresentazione. L’oratore non pensa prima di parlare e non pensa neppure mentre parla, la sua parola è il suo pensiero, non il corpo del suo pensiero. Saremmo tentati di credere ad un pensiero indipendente dall’espressione, in virtù di quel mondo di pensieri silenziosi che ronzano nella nostra testa e ci danno l’illusione di una vita interiore, ma in realtà quei pensieri silenziosi sono fatti di parole che risultano da precedenti atti d’espressione. La psicologia moderna ha dimostrato che un soggetto, testimone di un fenomeno, non ricerca in sé stesso o nella propria esperienza il senso di ciò che vede. Assistere ad un gesto di rabbia non da luogo alla percezione della rabbia come fatto psichico nascosto dietro al gesto, il gesto è la rabbia. Per un bambino che assista casualmente ad un atto sessuale, esso è un evento senza significato che egli non può comprendere poiché quel comportamento non è ancora biologicamente possibile o significativo per lui: un gesto, infatti, è pienamente compreso solo quando i poteri del mio corpo vi si conformano e combaciano con esso. Allo stesso modo un gesto linguistico è compreso nella misura in cui colgo il modo in cui esso manipola il mondo linguistico comune a me e all’altro, mondo determinato dall’insieme dei significati disponibili. Come si sono costituiti i significati disponibili entro il mondo linguistico di una comunità? Generalmente viene operata una distinzione tra il gesto e la parola, rispettivamente riconosciuti come ‘’segno naturale’’ e ‘’segno convenzionale’’: se infatti è facile constatare la corrispondenza tra un gesto, per esempio un sorriso, e il suo senso, ad esempio la gioia, il nesso tra la parola e il suo significato sembrerebbe essere del tutto casuale e la parola, come dimostrato dall’esistenza di lingue differenti, parrebbe essere una convenzione arbitraria. In verità non è così: le parole sono diversi modi di raccontare il mondo e descrivono gli oggetti non in virtù di una somiglianza oggettiva o onomatopeica, ma in virtù della loro essenza emozionale. Le differenze tra le lingue non esprimono diverse convenzioni arbitrarie, ma diversi modi del corpo umano di celebrare il mondo e di viverlo. Non esistono segni convenzionali che esprimano un pensiero puro e chiaro per se stesso, ma solo parole che esprimono la storia di un popolo. Non esistono neppure segni naturali, perché ammetterli presupporrebbe riconoscere che a dati stati di coscienza il nostro corpo biologico fa corrispondere gesti definiti, quando in realtà un italiano e un giapponese arrabbiati si comportano in maniera opposta: uno arrossisce e batte il piede a terra, l’altro sorride. I comportamenti sono inventati come le parole, sono istituzioni. Alla luce delle proprie osservazioni linguistiche Merleau-Ponty fornisce una nuova teoria dell’afasia che tratti il pensiero e il linguaggio come due manifestazioni della medesima attività fondamentale: la proiezione verso un mondo. Merleau-Ponty riprende il fenomeno dell’amnesia dei nomi di colori che l’intellettualismo aveva attribuito ad un disturbo del pensiero: l’incapacità di manifestare l’atteggiamento categoriale. In realtà, come osserva, l’atteggiamento categoriale è un certo modo di riferirsi al mondo. Un soggetto normale, nel raggruppare un certo numero di oggetti secondo il criterio di tinta fondamentale, percepisce istantaneamente tutti i rossi, i verdi, gli azzurri staccarsi dallo sfondo degli altri colori. Nel malato, invece, ogni oggetto è colto individualmente. Il disturbo deve concernere l’organizzazione degli elementi nel campo visivo del soggetto patologico, evidentemente non più sotteso da vettori che collegano gli oggetti ad uno rappresentativo di una certa caratteristica. Ad essere colpita, dunque, è la percezione del contesto d’esperienza in cui il malato agisce. Poiché sia l’atteggiamento categoriale che la parola presuppongono un riferimento al contesto d’esperienza, l’incapacità di manifestare l’atteggiamento categoriale non può essere considerata la causa dell’inerzia verbale del soggetto, entrambi i disturbi vanno ricondotti alla medesima causa. Il fatto che molti malati siano in brado di ripetere il nome di un colore pronunciato dal medico, senza tuttavia riuscire ad identificarlo, dipende dal fatto che il senso della parola non è contenuto nel suo suono, il malato non può cercare di indovinare quale sia il ‘’rosso’’, perché il rosso non gli significa più nulla e il significato di rosso è nel rosso stesso.


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