La fenomenologia è una filosofia trascendentale che si
occupa dello studio delle ‘’essenze’’, ovvero delle strutture ultime e costanti
della nostra esperienza. Per poter cogliere le essenze, la fenomenologia attua
l’epochè (o riduzione fenomenologica): pone tra parentesi le affermazioni del
atteggiamento naturalistico – i pregiudizi del senso comune – rendendo
possibile l’accesso al ‘’trascendentale della coscienza pura’’, una dimensione
di evidenze intuitivamente originarie. Il tentativo della fenomenologia è
quello di riconquistare un rapporto di ingenuità col mondo, descrivendo la
nostra esperienza così com’è, senza far riferimento alla sua genesi
psicologica, storica, scientifica o culturale. Non a caso il compito che
Husserl impartiva alla fenomenologia nascente era quello di ‘’ritornare alle
cose stesse’’, di ritornare, cioè, a quel mondo anteriore alla conoscenza nei
confronti del quale ogni determinazione scientifica o culturale è segnitiva e
dipendente, esattamente come lo è la geografia nei confronti del paesaggio in
cui abbiamo imparato cos’è un fiume o un lago. Tutto ciò che so, lo so a
partire da una mia veduta, senza la quale i segni della scienza non
significherebbero assolutamente nulla.
L’esigenza fenomenologica di una descrizione pura esclude
sia il procedimento dell’analisi riflessiva che una spiegazione scientifica: Cartesio
e Kant hanno separato soggetto ed oggetto, mostrando che non potrei cogliere
nulla come esistente se non mi esperissi dapprima esistente nell’atto di
coglierla, hanno cioè trattato la coscienza come la condizione senza la quale
non ci sarebbe proprio nulla. Così facendo, entrambi hanno cessato di aderire
all’esperienza.
In Cartesio il cogito è certezza ed evidenza immediata della
mia esistenza. Io posso dubitare di tutto, finanche arrivando ad ipotizzare
l’esistenza di un genio maligno che inganna i miei sensi. Non posso, però,
dubitare del dubbio, perché se dubito di tutte le cose l’unica cosa certa è che
io stia dubitando. Poiché il dubbio è una forma di pensiero, ‘’Cogito ergo
sum’’: io esisto, quantomeno come res cogitans, ossia sostanza pensante e il
cogito diviene il criterio di misurazione di ogni altra possibile certezza.
Per Kant l’uomo conosce il mondo attraverso categorie che
appartengono al suo intelletto e pertanto il suo sapere del mondo si risolve in
un sapere dell’Io. Senza un Io Peno che
unifichi le nostre rappresentazioni del mondo, esse non avrebbero senso. L’Io
Penso è, in altre parole, l’imprescindibile condizione di possibilità della
pensabilità del mondo.
In realtà, osserva Merleau-Ponty, il mondo è da descrivere e
non da costruire o da costituire, il mondo non è ciò che io penso, ma ciò che
io vivo: ‘‘Il mondo c’è’’ prima di ogni analisi che io possa farne. La percezione
non può in alcun modo essere prodotto di sintesi intellettuali: in ogni momento
il mio campo percettivo mi offre stimoli che io pongo direttamente al mondo
senza connetterli precisamente al contesto. La percezione è lo sfondo dal quale
si stacca ogni mio atto e ogni mio pensiero.
L’esigenza fenomenologica di una descrizione pura ammette
solo il procedimento della riduzione fenomenologica che ci consente il ritorno
ad una coscienza trascendentale dinnanzi alla quale il mondo si dispiega in una
trasparenza assoluta, come insieme di significati di fenomeni complessi. Il
senso del mondo emerge dall’intersezione delle mie esperienze con quelle
dell’altro: le prospettive si incontrano, le percezioni si confermano, un senso
appare. Una coscienza è definita dalla sua attività di significazione, io sono
una coscienza perché qualcosa è ‘’per me’’ e non mi distinguo da una qualsiasi
altra coscienza che è definita nella stessa maniera: tutte le coscienze sono
presenze immediate in un mondo che è per definizione unico. Se io sono una
coscienza esattamente come l’ ‘’altro’’, vuol dire che io sono ‘’per me’’ e
sono necessariamente anche per l’ ‘’altro’’ e che l’ ‘’altro’’ non è solo ‘’per
me’’ ma è prima di tutto per ‘’se’’.Affinché l’altro possa essere ‘’per me’’ e
‘’per sé’’ allo stesso tempo e affinché io possa essere ‘’per me’’ e ‘’per
lui’’, io e l’altro dobbiamo essere la nostra esteriorità, ciascuno di noi
deve, cioè, essere definito da una certa situazione. Il Cogito Cartesiano aveva
allontanato la problematica dell’altro, insegnando che l’Io è accessibile solo
ed esclusivamente al soggetto: IO ho certezza del mondo nella misura in cui IO
penso il mondo. L’altro può essere solo ‘’per me’’ e nella misura in cui io lo
penso. Attraverso la fenomenologia io mi scopro coscienza tra le coscienze,
uomo tra gli uomini, ‘’essere al mondo’’.
Solo attraverso la riduzione fenomenologica, rompendo la
nostra familiarità col mondo, noi riusciamo a renderci conto di quanto
effettivamente siamo presi in esso e quanto esso sia paradossale. L’essenza del
mondo che cogliamo sul piano trascendentale è ciò che esso è prima di ogni
tematizzazione. È la percezione del mondo che fonda per sempre la mia idea
della verità: le tematizzazioni non possono che essere successive a questa
esperienza originaria. La percezione rappresenta, pertanto, la via d’accesso al
senso del mondo nel suo stato nascente.
Le analisi classiche hanno fallito l’analisi del fenomeno
della percezione perché lo hanno identificato con i suoi prodotti. Per chiarire
cosa sia la percezione è necessario compiere una sorta di riduzione
fenomenologica, liberarsi dei pregiudizi del senso comune e delle costruzioni
della filosofia e ritornare ‘’alle cose stesse’’, ossia ai fenomeni.
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